Il ponte sullo Stretto: l’unico impossibile al mondo (ma solo da noi)
C’è una strana maledizione in Italia: ogni grande opera che potrebbe unire qualcosa, finisce per dividere qualcuno.
Il ponte sullo Stretto di Messina è il caso da manuale. Ogni volta che se ne parla, riemerge l’antico spirito italico del “non si può fare”, condito con un pizzico di catastrofismo e una spolverata di burocrazia.
Troppo vento, troppa sismicità, troppa corrente marina, troppa Sicilia, troppa Calabria.
Insomma, sembra quasi che lo Stretto sia l’equivalente ingegneristico del Triangolo delle Bermuda.
Eppure, nel resto del mondo, i ponti li costruiscono eccome e pure dove la natura ha molto meno senso dell’umorismo.
In Giappone ballano i ponti, ma non crollano
Il ponte Akashi Kaikyō, per gli amici “Pearl Bridge”, unisce due isole giapponesi in una delle aree più sismiche del pianeta.
È lungo 3.911 metri, con una campata centrale di quasi due chilometri.
Durante la costruzione, un terremoto di magnitudo 7.2 spostò le torri di un metro. Gli ingegneri? Si limitarono a dire: “Ok, lo allunghiamo di un metro”.
Risultato: il ponte più lungo del mondo nella sua categoria, aperto nel 1998 e ancora perfettamente funzionante.
In Italia, un terremoto del genere avrebbe generato una commissione parlamentare, un talk show e dieci anni di sospensione lavori “in attesa di perizia”.
In Cina: “Dove serve un ponte, facciamolo. Subito.”
In Cina i ponti nascono più veloci dei meme sui social.
Il Danyang–Kunshan Grand Bridge, lungo 164 chilometri, collega Pechino a Shanghai. Avete letto bene: centosessantaquattro chilometri di ponte.
Non è un sogno, non è un rendering, non è un progetto “in valutazione di impatto ambientale”. È realtà.
Da noi invece dopo 164 chilometri saremmo ancora a discutere se è competenza della Regione o dello Stato.
In Norvegia: ponti tra fiordi, tempeste e… balene
La Norvegia è il regno dei ponti impossibili. Il Storseisundet Bridge, quello con la curva a “montagna russa”, è costruito in una zona dove le onde del mare spesso coprono le carreggiate.
Ma loro lo hanno fatto lo stesso, e oggi è una delle strade più spettacolari d’Europa.
E stanno progettando addirittura il primo ponte sottomarino galleggiante del mondo, lungo 1,7 km, sospeso in mare a 30 metri di profondità.
Da noi, se solo si proponesse un’idea simile, partirebbero interrogazioni parlamentari su “come respirano gli automobilisti sott’acqua”.
In Danimarca e Svezia: un ponte che unisce due nazioni
Il ponte di Øresund collega la Danimarca alla Svezia: 8 chilometri di ponte e altri 4 di tunnel sottomarino.
Inaugurato nel 2000, sopporta ghiaccio, vento e traffico internazionale senza battere ciglio.
Da noi, collegare Calabria e Sicilia, due regioni dello stesso Paese, sembra più difficile che unire due nazioni con valute diverse.
In Italia, invece, il ponte lo abbiamo già: quello delle scuse
Nel frattempo, tra uno studio di fattibilità e un’indagine conoscitiva, il ponte sullo Stretto rimane l’unico al mondo che esiste solo nelle slide di PowerPoint.
Gli altri lo costruiscono; noi lo “valutiamo”.
Ci preoccupiamo che “potrebbe vibrare col vento”, dimenticando che esistono sistemi di smorzamento dinamico che tengono fermi anche i grattacieli di Tokyo.
Oppure che “non ci sono fondali adatti”, come se scavare fosse una magia aliena.
In realtà, la difficoltà non è tecnica: è mentale.
È quella forma tutta italiana di autolesionismo ingegneristico per cui tutto è “complesso”, “rischioso” o “da approfondire”.
Finché alla fine, il ponte più lungo resta quello che unisce l’incompetenza alla paura di decidere.
Conclusione: il mondo costruisce, noi contempliamo
Forse, più che ingegneri, ci servono psicologi di gruppo: per affrontare il trauma collettivo del “fare”.
Perché i ponti veri, di cemento e acciaio, uniscono.
Noi invece abbiamo costruito solo ponti di parole: lunghi, traballanti e destinati a crollare sotto il peso delle scuse.
