Quando il marketing si fa woke: le aziende che hanno perso clienti, soldi e faccia (e ora fanno marcia indietro)
Negli ultimi anni, il mondo del marketing ha scambiato le campagne pubblicitarie con lezioni di morale.
Brand storici hanno cambiato logo, slogan e perfino missione per dimostrare quanto fossero “inclusivi” e “progressisti”.
Ma quando un’azienda smette di vendere ciò che la gente vuole per insegnarle come deve pensare, il risultato è sempre lo stesso: clienti in fuga e bilanci in rosso.
Bud Light: la birra più leggera d’America (anche nel cervello del marketing)
La Bud Light è diventata l’esempio perfetto di “autogol aziendale”.
Dopo aver scelto un influencer transgender come testimonial, il pubblico storico ha reagito con boicottaggi, ironie e un crollo delle vendite del 25%.
Un errore colossale: la birra più popolare d’America è diventata simbolo di divisione.
E mentre i magazzini restavano pieni, i social ridevano.
Morale: la coerenza vale più di mille post arcobaleno.
Harley-Davidson e Indian: l’orgoglio biker parcheggiato
Anche Harley-Davidson ha provato a cavalcare la moda “woke” con campagne sulla sostenibilità e la diversità.
Peccato che chi compra una Harley non voglia sentirsi dire di “riflettere sul privilegio maschile”: vuole sentire il rombo del motore.
La rivale Indian Motorcycle ha imitato la mossa, togliendo riferimenti alle proprie radici native per non “offendere nessuno”.
Alla fine hanno perso tutti: identità, clienti e credibilità.
Cracker Barrel: dal cibo tradizionale al fritto misto di loghi e ideologia
Il colosso americano Cracker Barrel ha ridisegnato il suo logo rendendolo più “morbido” e neutro, rimuovendo il vecchio stile rustico.
Parallelamente ha introdotto menù vegani, campagne sulla “diversità” e perfino sponsorizzazioni di eventi con laboratori transgender per bambini, spacciati come “educativi”.
Il pubblico tradizionale ha reagito malissimo: recensioni negative, boicottaggi e perdita d’immagine.
Alla fine l’azienda ha sospeso le ristrutturazioni dei locali e chiuso i rapporti con i consulenti del rebranding.
Il pollo sarà pure rimasto croccante, ma la reputazione no.
Jaguar: pubblicità woke, logo piatto e vendite ferme ai box
Jaguar, sinonimo di eleganza e potenza britannica, ha cambiato pelle (e cervello).
Ha ridisegnato il suo storico logo in stile piatto e “gentile”, sostituendo la forza del giaguaro con una grafica da app di yoga.
Le nuove campagne pubblicitarie parlavano più di identità e inclusione che di automobili e in alcune grandi manifestazioni il marchio ha finanziato workshop e attività legate al tema transgender, anche per minori.
Il pubblico di riferimento, quello che apprezza cavalli e design, non ha gradito: vendite stagnanti e dimissioni del CEO.
Il giaguaro, da predatore, si è trasformato in un gatto da salotto.
Meta, McDonald’s e le altre: la ritirata silenziosa
Dopo anni di spese e retorica sulle politiche di diversity, equity e inclusion (DEI), molte multinazionali stanno facendo dietrofront.
Meta ha tagliato intere divisioni dedicate alla DEI.
McDonald’s ha eliminato la figura del Chief Diversity Officer e ridotto i corsi “di sensibilizzazione”.
Walmart, Boeing, Molson Coors, Lowe’s, Ford e Harley-Davidson hanno ridimensionato o chiuso i propri reparti DEI dopo aver capito che la “virtù aziendale” non si traduce in vendite.
Alcune di queste aziende avevano anche promosso e finanziato corsi e laboratori a tema transgender per bambini durante fiere ed eventi pubblici e il pubblico, letteralmente, ne è rimasto alla larga.
Il risultato? Reputazione in crisi e una valanga di disdette.
Quando il marketing woke parla italiano
In Italia la deriva woke è arrivata con toni più moderati, ma qualche caso ha fatto scuola.
Barilla, dopo le polemiche sulla “famiglia tradizionale”, ha completamente ribaltato la comunicazione, abbracciando partnership LGBTQ+ e corsi interni di diversity. Il risultato? Un pubblico diviso e la sensazione di un marchio più attento all’immagine che alla pasta.
Unicredit ha introdotto corsi DEI e linguaggio neutro, salvo poi abbassare i toni dopo le reazioni interne.
Mulino Bianco, Esselunga, Coop, Lavazza e Ikea Italia hanno testato pubblicità più “inclusive”, con famiglie non convenzionali o messaggi sociali. Ma dopo le polemiche online, molte hanno preferito tornare a comunicazioni più “soft” e rassicuranti.
Perfino la RAI, con alcuni spot “educativi” a tema identità e fluidità di genere, ha dovuto ritirarli in fretta dopo le reazioni del pubblico.
Insomma, in Italia il marketing woke si è fermato al semaforo:
il consumatore medio resta più concreto e diffidente, e chi prova a vendergli ideologia invece che qualità… finisce nel cestino della spesa.
Lezione di mercato (che nessun corso DEI spiega)
Quando il marketing si trasforma in ideologia, il cliente diventa spettatore, non compratore.
E nel capitalismo, l’unico “voto” che conta è quello del portafoglio.
Chi ha speso milioni per apparire virtuoso oggi scopre che i bilanci si scrivono con i numeri, non con i pronomi.
Conclusione: la virtù non paga (ma l’autenticità sì)
Essere rispettosi è giusto, ma fare propaganda morale in un supermercato o in una pubblicità di auto è semplicemente fuori luogo.
Le aziende che hanno puntato sull’ideologia invece che sulla qualità oggi cercano di tornare indietro.
Forse hanno finalmente capito una cosa semplice:
“Il cliente non vuole essere educato. Vuole essere rispettato e servito bene.”
