La guerra dei manubri: BMWisti, customisti e sportivi

 

(ovvero: “la pace dei sensi non esiste, ma la frizione sì”)

C’è una guerra silenziosa che si combatte ogni domenica mattina, all’alba, tra un autogrill e un passo di montagna. Non si spara, non si muore, ma qualcuno si offende e qualcuno scivola. È la guerra tra i motociclisti, una tribù divisa in clan, in sottospecie e in ideologie più rigide di una forcella Öhlins.

Il BMWista: il cavaliere della stabilità

Lo riconosci subito: giacca touring da 1.200 euro, stivali che sembrano fatti per scalare il K2 e una moto con più elettronica di un caccia F-35.
Guida la sua BMW GS con la fierezza di chi crede di essere in Africa, ma in realtà è sulla tangenziale ovest alle 9:47 del mattino.
Se gli chiedi perché ha scelto quella moto, ti parlerà di affidabilità tedesca, di telelever e di comfort di marcia, ma la verità è che ama il pulsante “Heated Seat” più della moglie.

Poi, attenzione, arriva il momento sacro del parcheggio: quando il BMWista si ferma, serve un’ora piena per sistemare tutto: casco nel bauletto, guanti nel bauletto, giacca ripiegata nel bauletto, chiavi nel bauletto (e magari pure l’ego).
E quando si deve ripartire, preparati: servono almeno due ore di vestizione cerimoniale, con regolazioni millimetriche del colletto, chiusure a velcro calibrate al laser e rituali propiziatori per accendere il navigatore.
Nel frattempo, gli altri hanno già fatto due passi, tre selfie e un pranzo completo.

Ogni tanto ti dirà che “non serve correre, basta godersi la strada” salvo poi superarti a 180 mentre regola il parabrezza elettrico.

Il Customista: il filosofo dell’asfalto

Poi c’è lui, il customista, l’anima libera dell’asfalto.
In inverno sfoggia il giubbotto di pelle nera, quello che ha vissuto più chilometri dei pneumatici, e d’estate passa al gilet di pelle perché la pelle non è un capo, è una religione.
Casco jet, occhiali da sole anche di notte, e uno scarico che potrebbe svegliare i morti… e pure i vivi nel raggio di 5 km.
Va piano, ma con stile. Non curva, accenna una curva. Non frena, riflette.
Per lui la moto non è un mezzo, è un’estensione dell’anima, un tempio su due ruote dove venerare il dio della cromatura e bestemmiare contro chi monta i LED “perché non è old school”.
La velocità non conta: conta il rumore del motore, il profumo della benzina e la possibilità di dire “io non ho bisogno dell’ABS”.

E la cosa più bella? Quando arriva, mette il casco sullo specchietto ed è già pronto, come se avesse parcheggiato la moto solo per fare scena.
Quando riparte, rimette il casco e in un minuto è già per strada, lasciandosi dietro un profumo di benzina, un ruggito di scarico e un vago senso di superiorità.

Lo Sportivo: il missile con le gambe

E infine, eccolo: il motociclista sportivo.
Tuta intera, ginocchiera limata, posizione da yoga avanzato e convinzione che il codice della strada sia solo “una linea guida”.
Parte alle 7 del mattino per “fare il passo”, e alle 7:08 è già al bar in cima. Ti guarda dall’alto del suo casco AGV dicendo: “la moto va capita”, come se parlasse di un’opera di Nietzsche e non di una 1000cc che fa 0-100 in 2,7 secondi.

Giù dalla moto, invece, cammina come un pinguino con l’ernia del disco, con la tuta che lo costringe in una posizione più rigida di una statua etrusca.
E se deve andare in bagno… beh, deve pagare qualcuno perché lo aiuti a togliere la tuta.
Una volta dentro, poi, scopre che servono altri due per rimetterla.
Ma lui, fiero, dirà sempre che “è il prezzo da pagare per la prestazione”.

Ama piegare fino a toccare le stelle, ma al ritorno si lamenta che “l’asfalto non tiene” e che “c’era ghiaia in curva”.

Tutti diversi, ma uguali

Alla fine, tra una GS parcheggiata in diagonale, un Harley che perde olio come segno d’identità, e un CBR che spara fuoco dallo scarico, l’unica verità è che tutti amano la stessa cosa: la libertà.
Solo che ognuno la interpreta a modo suo: chi con le borse laterali in pelle, chi con i bauli in alluminio, chi con una tuta che sembra un preservativo in Kevlar.

La morale?
Non importa cosa guidi: alla fine ci ritroviamo tutti al bar, a parlare di gomme, curve e di quanto “gli altri non capiscono niente di moto”.
Già… perché gli altri non sanno cosa vuol dire avere due ruote sotto il sedere.

E alla fine, nonostante le prese in giro, le differenze e le rivalità da bar, tra motociclisti c’è sempre quella fratellanza silenziosa che si manifesta con un semplice gesto: una mano che si alza incrociando un altro casco.
Perché su due ruote, anche se siamo diversi, siamo tutti della stessa strada.

P.S. Non si nota che sono un motociclista vero ?

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