Il Tiramisù non è più italiano: ci hanno “tirato giù” anche il dolce nazionale!
C’è una notizia che ha sconvolto il Paese più patriottico del pianeta… almeno quando si parla di cibo: il tiramisù migliore del mondo non è italiano.
No, non è uno scherzo di Crozza né una fake news di qualche sito con il nome in .biz. È tutto vero. Il “World Trophy of Professional Tiramisù”, roba seria, con tanto di giuria internazionale e grembiuli immacolati, ha incoronato Aya Okada, pasticciera giapponese di 28 anni, come campionessa mondiale del tiramisù.
La giovane maestra del dolce, originaria di Ishikawa, ha presentato un tiramisù a forma di pianoforte a coda. Già questo dovrebbe bastare a farci capire che noi italiani siamo fermi al cucchiaino mentre altrove stanno componendo sinfonie di mascarpone.
“Do, re, mi… tirami su”: la sinfonia che ci ha stesi
Aya ha messo insieme ciliegie al maraschino, amarene e un’estetica da Michelin in salsa kawaii.
Il risultato? Una roba talmente elegante che probabilmente si mangia solo con il sottofondo di Chopin e il mignolino alzato.
E l’Italia?
Secondo posto, grazie a Milena Russo, che ha tentato la carta “tiramisù gourmet” con rosa bulgara, lamponi, caffè e pepe rosa.
Una poesia di aromi, ma alla fine il pianoforte giapponese ha suonato la marcia funebre del nostro orgoglio culinario.
Il terzo incomodo marocchino e il fantasma del savoiardo
Sul podio, al terzo posto, il marocchino Simon Loutid con la sua creazione poetica “Nostalgia di un bambino” e qui, già dal titolo, si capisce che noi con “il mascarpone della nonna” non avevamo speranze.
Tra ibisco, vaniglia e fiori di bissap, anche l’Africa ha detto la sua.
Insomma, il mondo intero si è svegliato un giorno e ha deciso di fare meglio il nostro dolce.
Da noi invece… “tirami giù dal bancone”
Il bello è che da noi il tiramisù è praticamente obbligatorio in ogni ristorante, da quello stellato al bar dell’autogrill.
Solo che non esiste un formato unico:
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alcuni lo servono nel barattolo a chiusura ermetica, manco fosse una conserva della nonna;
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altri nel bicchierino da whisky, così piccolo che ti serve la lente per trovarlo;
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e altri ancora lo buttano a badilate in un piatto fondo da lasagna.
E paradossalmente, il più buono è sempre quello servito a badilate perché diciamocelo, il tiramisù è così semplice da fare che ne fai una tonnellata in dieci minuti e hai dolce per tutto il condominio.
Altro che “forma di pianoforte”: il nostro è più un “tamburo di cantiere”. Ma buono, eh!
Ma perché dobbiamo sempre “migliorarlo”?
E poi, una domanda sorge spontanea: ma perché dobbiamo sempre complicare la vita ai dolci semplici?
Che c’entrano rosa bulgara, pepe rosa, ibisco e vaniglia africana con il tiramisù?
Il tiramisù nasce con savoiardi, mascarpone, uova, zucchero e caffè non con il bouquet floreale di un matrimonio a Marrakech.
Ormai sembra che se un dolce non ha dentro un ingrediente che cresce a 12.000 km di distanza non sia degno di una gara internazionale.
Ma la verità è che il fascino del tiramisù è sempre stato nella sua banalità geniale: pochi ingredienti, tanta sostanza e un risultato che tira su anche un funerale.
Conclusione (amara, come il caffè del tiramisù originale)
Che dire?
Complimenti alla vincitrice. Noi italiani, nel frattempo, ci consoleremo come sempre:
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dicendo che “non è vero, è un complotto contro il made in Italy”;
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mangiando lo stesso il nostro tiramisù del bar sotto casa,
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e postando indignati su Facebook con l’immancabile “non ci sono più i dolci di una volta”.
Almeno finché non scopriremo che anche la carbonara migliore del mondo la fa un cuoco norvegese con il tofu.
Ah, quasi dimenticavo: a questo punto proporrei a Geopop di fare un video sulla “vera storia del tiramisù”, così potremo litigare anche lì tanto, viste le ultime polemiche, ci manca solo questa!
